FINO AD UCCIDERE PER CULTURA

Basterebbe citare quasi a casaccio alcuni film erotici giapponesi della seconda metà del ‘900 per diventare dei fautori della censura per le ragioni opposte a quelle dei moralisti: si tratti di Teruo Ishii (Shogun Joy of Tortures) come di Koyu Ohara (Fairy in a Cage, Lady Caligula in Tokyo), ci troviamo di fronte a opere di genere che danno allo spettatore occidentale una dimostrazione sconcertante delle perversioni a cui si può giungere attraverso la negazione di ciò che da noi è moneta corrente, ovvero la semplice esibizione degli organi genitali. (Chissà, forse concorderebbe con tale negazione Bobby Beausoleil, che a quanto dice Moynihan in "Inaugurator Pleasure Dome" trovò fra le mura del carcere una maniera del tutto singolare di sperimentare la sessualità come pienezza in absentia, simile ad un asceta sessuato tantrico che conquista potenza ritenendo il seme, ma senza privarsi di passione ed eccitazione.) Chiusa la porta dell’ostensione in linea retta, le pellicole nipponiche aprono finestre di libertà che a chi è dotato d’una idea ingenua di essa (mostrare direttamente ogni cosa = la pornografia, l’assoluta trasparenza), possono sembrare paradossali. E invece: sadismo della peggior specie, masochismo che tocca vette di raffinatezza inusitate, escrezioni e secrezioni in abbondanza… il tutto artigianale e moralmente gratis, senza i complessi di colpa così cari agli amanti dell’autentico, del documentaristico, della "vita vera" ad ogni costo, condizione ai limiti della patologia che li colloca ben lontano dalla democrazia dei cartoni animati, nella quale si può sempre far risorgere Vile Coyote dopo averlo ucciso nei modi peggiori. La colpa di questi spettatori, in realtà, è assai diversa da quella che credono, anzi, non è neppure una colpa ma un semplice errore concettuale: risiede precisamente nella distinzione che fanno fra natura e cultura; vogliono "vedere il sangue vero", perché ossessionati dall’idea che, se pure la loro è un’esperienza vicaria, o forse proprio per questo, deve perlomeno esserlo di primo grado (quindi "naturale") e quando si tratta di cinema ciò significa che l’esperienza ricercata sarà di preferenza documentaristica. Pochi non fanno distinzione fra i due gradi, pochi sanno che non c’è differenza perché l’uomo vive tutto come linguaggio, e quindi ogni cosa è già mediata da esso. Fra questi pochi ricordiamo almeno Richard Kern, con il suo noncurante, ma consapevole ciondolare fra soft e hard; cose come il presunto documentarismo sessuale del porno non esistono, quindi che la rappresentazione cinematografica sia costruita consapevolmente o meno non ne cambia la qualità comunque artificiosa. In conclusione, l’immediatezza è un’allucinazione in cui ci voltoliamo come maiali ignoranti. Persino uno snuff, se mai esistesse, offrirebbe -- in quanto film -- un punto di vista culturale e non una realtà oggettiva naturale; considerarlo come Cosa Vera nasce dallo scambio, dallo scivolamento che si opera tra individuo ucciso alla lettera (un contenuto, per quanto allucinante) e punto di vista (una forma, per quanto allucinante): quest’ultimo diventa a sua volta "naturale" perché l’ "attore" è stato ammazzato sul serio; e invece chi ha fatto le riprese ha scelto un’angolazione, un tipo di illuminazione e di pellicola, involontarie fin che si vuole ma non per questo meno artificiose e costruite. E, per dar fondo all’orrore, chi può negare che la stessa vittima, sapendo di essere ripresa, non abbia dato a suo modo un’ "interpretazione" -- quindi si sia comportata da "attrice" -- per un momento esistenziale che sapeva qualitativamente diverso nella sua conclusività, così da offrire ad altri, e al suo carnefice in primis, una certa idea di sé con il suo ultimo sospiro?

(Se si vuole davvero una scena in cui la mdp è utilizzata come arma nella sua concreta presenza e specificità di mdp, e quindi nei movimenti che diventano attori, si pensi semmai alla strage finale della Bestia uccide a sangue freddo di Di Leo: le leve formali da lui utilizzate sono un esempio di estremo interesse proprio perché dietro l’immagine sentiamo letteralmente la mano del regista, l’esatto contrario sia dell’occultamento della camera, sempre cercato quale ingenuo risultato più alto dai documentaristi o dagli autori verosimili, che dello straniamento, spesso voluto da quelli d’avanguardia, bizantini estimatori dell’occhio assassino. Ma uccidere deve essere un’esperienza fortissima anche al cinema e lo spettatore deve sentirne tutto il peso in una soggettiva che restituisca spessore all’azione, non alla visione; e ciò che si fa, lo fa l’arma: per questo la soggettiva temeraria è sua. Dunque: dall’occhio che individua la vittima alla mano, dalla mano alla protesi che colpisce come se avesse un occhio -- la mazza, la mdp; è proprio questo percorso, così logico e lineare, a rendere minacciosa la sequenza.)

Uno scambio ancor più scopertamente ideologico rispetto a quello di cui ho parlato sopra si può verificare leggendo Killing For Culture, in cui David Kerekes e David Slater vanno alla ricerca proprio della leggenda metropolitana chiamata snuff movie. È bene dire subito che fino al 1995 i due, tipicamente anglosassoni nella loro acribia, ancora non ne avevano trovato traccia certa e certificabile. Voci tante (demenziali in particolare quelle raccolte dal serial killer Schaefer), certezza nessuna. Interessante anche la definizione dello snuff come forma: è "nascosto; esclusivo; fatto d’una stanza e d’una mdp; in bianco e nero; silenzioso; a grana grossa; con una colorazione curata male; costoso; una merce". Messa da parte una volta per tutte la questione chimerica, il vero interesse del testo si concentra sui parasnuff e sugli pseudosnuff. E proprio qui occorre che il lettore sappia operare delle distinzioni, se non vuole correre il rischio di scambiare Faces Of Death per The Act Of Seeing With One’s Own Eyes o per Of The Dead. La questione si complica perché d’altra parte è anche vero che la critica ufficiale e umanista italiana ha sempre bistrattato quell’hapax legomenon problematico chiamato Cannibal Holocaust, non ha mai considerato Wessel, Wiseman, Kern o Buttgereit (lo stesso Brakhage è per pochi fortunati), e quindi diventa difficile mantenersi sempre intellettualmente all’erta… Un esempio: "Emanuelle in America, Last House On Dead End Street, e Hardcore -- tali sono i film ad essersi direttamente ispirati a Snuff e a ciò che Snuff insinuava: quella morte si stava esibendo al cinema come pornografia per uno specifico mercato"; se quanto al discorso di Kerekes/Slater la parentela è sensata, è possibile tuttavia che, per una sorta di scivolamento più o meno inconsapevolmente pilotato dal desiderio del lettore, il film di D’Amato venga messo sullo stesso piano di quello di Schraeder, il che si evita solo se ci si rende conto che l’apparentamento ha valore nei limiti d’un discorso di filiazione e fonti, ma non sotto il profilo estetico. In questo senso, funzionando da principio di autorità in quanto ricerca seria, KFC corre il rischio di legittimare la merda. Ma si sa: la morte attira autori fra i migliori e i peggiori, quindi bisogna sforzarsi di non abbassare mai la propria guardia mentale. Detto questo, vanno ora rilevati i meriti del testo. Innanzitutto, viene analizzato in modo esauriente il fenomeno mondo-movie (con una disamina puntuale ed accurata del falso suicidio del bonzo contenuto in Mondo cane 2: un esempio da scuola di giornalismo) fino alle sue ultime, logiche evoluzioni televisive: programmi quali "Real-tv" e simili, e persino certi servizi dei telegiornali, risultano privi di padri se si dimenticano i film di Jacopetti; è stigmatizzata l’isteria della società inglese nei confronti dei film "nasty", ideologicamente dipinti dalla stampa dei tabloid come veri e propri snuff (ad esempio, fra essi è compreso Anthropophagus!); viene sottolineata la differenza fra ciò che lo spettatore dichiara di essere e ciò che è in realtà: Faces Of Death fu un flop nelle sale USA, ma divenne uno dei video più noleggiati; e si dimostra soprattutto il fatto che lo snuff esista come ambiguo spauracchio nonostante sia invece privo di una vita reale, effettiva: a parere delle femministe newyorkesi, per non citare che una sola delle tante voci interessate a creare confusione, che in Snuff l’assassinio fosse vero o simulato non faceva differenza: contava unicamente la violenza sessuale presentata come intrattenimento sessuale; non dimentichiamoci però che il suo stesso produttore, Shackleton, fu tra i primi a spacciarlo come snuff in senso stretto per ragioni pubblicitarie e quindi a decretare l’esistenza del monstrum. Insomma, le voci intorno ai mitici film produssero un effetto sociale negativo che doveva essere paradossalmente difeso -- a "fin di bene", s’intende -- fino al punto di far affermare a Susan G. Cole: "Non c’è evidenza che gli snuff non esistano"; e gli autori commentano ironici: "Con la difesa della Cole è difficile trovare da ridire sulle argomentazioni di un revisionista dell’Olocausto". Kerekes e Slater si spingono poi a criticare la doppiezza della legge, figlia dell’isteria di cui parlavo, pronta a incolpare d’omicidio un ignoto cineamatore, Geoffrey Jones, che uccise involontariamente un’attrice sul set, ed altrettanto pronta a non creare nessun problema a Spielberg per la morte di Vic Morrow durante una scena d’azione; come conclusione della loro indagine, gli autori ipotizzano che, continuando a premere sul potenziale valore economico degli snuff e sull’esistenza di un altrettanto potenziale mercato, in futuro essi potrebbero davvero venir girati: l’effetto, insomma, creerebbe la causa. E in fin dei conti, tanto parlare e censurare qualcosa d’inesistente, non potrebbe nascondere un desiderio collettivo tanto inconfessabile quanto profondo, oggi esaudito per difetto dai reality show?